Di Carlo Terzolo alle sue prime prove espositive tra fine Venti e inizio Trenta1, Emilio Zanzi, attento recensore sulla stampa locale e corrispondente della rivista nazionale “Emporium”, sottolinea alcuni caratteri che rimarranno sostanzialmente immutati nel tempo:
– semplicità rappresentativa, nitida proprietà, rigore di costruzione e di pittura (“umiliata pittura”: con qualche plausibile allusione alla pittura della “rinuncia”, che proprio a Torino, con varie declinazioni e riferimenti, aveva campioni straordinari, da Casorati e Nella Marchesini a Bozzetti e Galante, e poi Buratti, Bosia, Reviglione, tutti artisti che caricano l’arte di una profonda valenza etica e che quindi la spogliano di tutti gli orpelli decorativi e genericamente sentimentali);
– candore ingenuità stupore, incantevoli. I termini vanno collocati sia nell’ambito di un complesso discorso sulla “primitività” come scelta di modelli storici, che largamente interessa l’arte non solo italiana tra le due guerre, sia nell’ambito di una ricerca di “originarietà” soprastorica, assoluta, che “al di là del visibile e del tangibile [coglie] le bellezze, anzi l’anima della natura”;
– l’attenzione e lo scrupolo messo in ogni particolare (da “alluminatore”), a confronto però con una visione limpida e aperta, elaborata “sopra schemi nostrani e d’uso secolare”.
Per almeno due volte Zanzi utilizza il termine “mappale”, che allude a una organizzazione topografica dello spazio della rappresentazione; l’ordine fino a un certo punto paratattico, congiunto alla “scrupolosa indagine del particolare” e alla “precisione da certosino” escludono le sintesi monumentali tipiche del “Novecento”.
Mentre Zanzi, in coerenza con la sua posizione ideologica e culturale, preferisce il riferimento alla tradizione italiana, medievale e religiosa addirittura mistica (quei paesi trasfigurati sono per lui “degni di far da sfondo a presepi o a gruppi di Santi estatici e di pallide vergini oranti”); altri commentatori richiamano subito i fiamminghi per la ricchezza e puntualità delle descrizioni (da favola nordica), e, per le tematiche, in particolare Bruegel il Vecchio. Intuizione che, se fosse fondata, ma non ce n’è prova, sulle ultime interpretazioni (proprio degli anni Venti e Trenta) dell’artista della Campine Brabantina, le quali sostituivano all’immagine stereotipa del pittore/contadino anzi contadino/pittore quella del pittore colto e raffinato che assumeva la maschera drôle per affrontare iniziaticamente temi di alto impegno teologico e politico o una visione laica dell’universo, avrebbe contribuito a liquidare il marchio di pittore naïf che ha continuato invece a perseguitare l’artista piemontese, almeno nelle letture correnti.
Comunque Terzolo, nato nel 1904, raccolse entro l’inizio dei Quaranta, quindi ancora piuttosto giovane, una messe notevole di successi, anche fuori dall’ambito cittadino e regionale: Biennali di Venezia (cinque di fila a cominciare dal ’34), Quadriennali di Roma (’31, ’35, ’39, ’43 con un gruppo di opere), Intersindacali dal ’31, ottime recensioni perfino da critici stranieri come il potente Roger-Marx, vendite importanti, inviti ad esposizioni all’estero, legate alle Biennali (Londra, Varsavia, Cracovia, Bucarest, Sofia, Budapest), numerose commesse per affreschi; realizzando, almeno in parte, le previsioni di Zanzi su “Emporium” (agosto 1932): “Artista di notevolissime possibilità Carlo Terzolo è uno di quelli che saranno presto chiamati a rappresentare la pittura piemontese nelle grandi gare nazionali e internazionali”.
Che sia mancato all’artista un critico che sapesse trarre a partito le intuizioni sparse di lettori sensibili e l’occasione clamorosa che collocasse la sua ricerca in un quadro internazionale, come auspicava Raffaele Calzini recensendo la Biennale su “Il Popolo d’Italia” (6 giugno 1934), non può peraltro meravigliare: in Italia latitava una cultura critica che andasse oltre l’estemporaneità della recensione; le prime avvisaglie a Torino con Lionello Venturi ed Edoardo Persico non arrivarono a toccare il nostro autore perché oggettivamente i due non erano più presenti in città quando il pittore cominciò ad affermarsi, ma è da dubitare, peraltro, che avrebbero speso qualcosa per un artista così lontano dal loro gusto e dalle loro idee di modernità; mentre i critici militanti di portata nazionale, in particolare Ugo Ojetti, Cipriano Efisio Oppo e Margherita Sarfatti, che pure mostrarono di stimare Terzolo, avevano bisogno di ben altra esemplarità, tanto meglio se riconducibile a schemi ideologici predisposti. Quanto alla scelta di Parigi, allora unica capitale dell’arte mondiale o almeno centro del sistema dell’arte, dove cercavano stanza e fortuna i più avventurosi, il giovane Terzolo non la scartò del tutto, recandosi nella capitale francese a più riprese e realizzandovi nella maturità due Personali, commentate favorevolmente; ma nemmeno vi si dedicò con piena convinzione, arrivando a dichiarare che i luoghi non lo convincevano (e il riconoscimento dei luoghi era per lui essenziale: del luogo da vivere come del luogo da rappresentare).
Può essere che il forte ancoraggio alla sua terra, il carattere schivo poco disposto a usare strategie di gruppo almeno sul lavoro, una certa timidezza, e specialmente l’orgoglio di un impegno solitario abbiano avuto influenza nelle sue scelte di vita e d’arte; ma non è da sottovalutare la singolarità oggettiva della posizione del pittore, lontano tanto dalle direzioni prevalenti dell’École de Paris2, sebbene assai diversificate, quanto dalle variabili dell’arte piemontese oscillante fra un naturalismo di radice ottocentesca e una modernità che si confrontava con modelli aggiornati, francesi o mitteleuropei3.
Certo si potrebbe trovare qualche consonanza in area nazionale con “Strapaese”, ma di specie piuttosto superficiale, per divergenze di fondo tanto etiche e comportamentali quanto ideologiche, per non dire di gusto, di atteggiamento e strategia professionale. Mi chiedo, semmai, se qualche rapporto Terzolo non potesse (non avrebbe potuto) avere con alcuni “pittori della realtà” di area romana come Ziveri, un altro isolato al di fuori degli “ismi”, mentre avrei difficoltà a sottoscrivere paralleli avanzati presto dalla critica con Donghi, Socrate, Trombadori4, e in genere con il realismo più o meno magico di alta stilizzazione, sostenuto da critici-letterati e, non senza riserve, da Roberto Longhi, piemontese definitivamente transfuga.
Mi solletica, per finire, la curiosità se mai Terzolo abbia conosciuto a tempo e apprezzato i pittori “regionalisti” statunitensi, che incrociarono gli anni della Grande Depressione e che, in qualche caso, oltre il recupero in immagine della vita contadina tradizionale, teorizzarono addirittura una mitologia dell’arcaico e dell’autoctono. In questa direzione Terzolo potrebbe aver tratto giovamento dalla frequenza di Cesare Pavese (i due si conobbero adolescenti a Reaglie dove le famiglie erano vicine di casa). Mi capitò di scrivere che “piacerebbe immaginare appassionati scambi anche polemici sul tema del mito, della memoria e del suo linguaggio, se non se ne sapesse la improbabilità dati i caratteri differentemente introversi5 dei due amici. Qui – ed è forse meno improbabile – suppongo che siano intercorsi semplici scambi d’informazione: in particolare, che Pavese abbia potuto fornire notizia di quella letteratura che cominciò presto a studiare e tradurre (e di cui esisteva, non poteva ignorarlo, un corrispettivo in area figurativa, pittura e fotografia, per non dire del cinema), e che il pittore abbia potuto restituire allo scrittore un modello di chiarezza e di rigore descrittivo, per così dire a conferma di ciò che lo studioso riscontrava in una certa rappresentazione anglosassone e in particolare americana del paesaggio. Non c’è motivo di dubitare della testimonianza dello stesso Terzolo, riportata da O. Rota, in “Avrebbe potuto lavorare con Pavese” (“Il Lavoro”, 20 luglio 1962): «Avevamo un progetto in comune, che la sua tragica fine interruppe: lui avrebbe voluto fare un’altra edizione di “Lavorare stanca” e “Paesi tuoi”, con disegni originali miei, non illustrazioni ma disegni sulla campagna…» (ciò che sembrerebbe sottolineare una corrispondenza “alla pari” fra lo scrittore e il pittore, tra la scrittura e la pittura).
Nemmeno è insignificante che la cultura anglosassone – salvo episodi sostanzialmente marginali – disconosca le avanguardie del primo ’900, dopo aver portato cospicui contributi ai naturalismi e ai realismi dell’800, e difenda una tradizione illustrativa, cioè di contenutismo oltre che di piana rappresentazione, che resiste perfino alle tentazioni spiritualiste e simboliste, da Blake ai Preraffaelliti fino a Bacon.
Solo in Inghilterra (a Londra) poteva essere organizzata una mostra come quella del ’34 dedicata all’albero dove, fra gli italiani, furono invitati solo il piemontese Terzolo e il toscano Memo Vagaggini.
Voglio pensare che porti contributo al mio assunto anche Giovanni Arpino, il quale, prendendo spunto da Italo Cremona che apparenta Terzolo ai “pittori di mirabili insegne e di ex-voto popolari”, dove ai fini della massima efficacia illustrativa si intrecciano immagini e parole, sottolinea che “Terzolo scrive il suo quadro, nei modi di un narratore attento al particolare”, forse pensando a narratori come Pavese e Fenoglio, che, su modello anglosassone, incalzano la cosa con la parola; così il pittore cercherebbe di spogliare l’immagine tanto dai manierismi della registrazione corporale quanto dagli schemi della organizzazione spaziosa, affermandone l’esclusiva evidenza. Parola e immagine si misurerebbero dunque con la “cosa”, che semplice o complessa è sempre singola; e sarebbe la cosa in figura verbale o grafico/pittorica a meritare “commozione”, tanto meglio se appartiene a un contesto, a un tessuto più o meno complesso, coerente e insieme sorprendente di cose.
È un fatto che la pittura di Terzolo è quanto di più lontano dalla registrazione passiva di ciò che si manifesta all’occhio, all’occhio freddo del naturalista o eccitato dall’emozione dell’impressionista o dell’espressionista.
Ne consegue che l’immagine prodotta non può essere verificata con sguardo goloso, in un certo senso coincidente con l’attimo dell’epifania.
Si può invece supporre che l’intenzione e le strategie operative del pittore siano quelle di costruire una realtà visibile, cioè un “sistema”, per dirla da strutturalista, coerentemente compiuto raccogliendo e organizzando informazioni visive o riconducibili alla visibilità, verificato in ogni suo aspetto, visivamente praticabile e conoscibile in ogni sua parte e in toto per il tramite dell’occhio.
In questa direzione, usando metodologie di lettura diverse, muovono gli interpreti storici di Terzolo, dopo i primi estemporanei approcci critici: Italo Cremona, presentatore della Personale alla Bussola di Torino nel 19526; Mario Lattes, recensore della stessa mostra su “La Fiera Letteraria”; Luigi Carluccio, che cura la prima ampia Antologica nel 1974 e la commenta su “La Gazzetta del Popolo” (24 giugno), infine Francesco De Bartolomeis, che redige il saggio introduttivo per l’Antologica postuma di Palazzo Chiablese, Torino 19807.
Tutti, ovviamente, si interrogano sul “realismo” di Terzolo; ma per caratterizzarlo devono scartare dal naturalismo di registrazione e anche da quello sintetico e stilizzato dei pittori considerati nuovi dai nuovi critici (Lionello Venturi in testa), e portarsi su posizioni che sono addirittura più vicine a quelle del cosiddetto “concretismo”, che in Italia si affaccia nell’immediato dopoguerra e però a Torino ha avuto precedenti tutt’altro che generici tra i neo-futuristi, al di là delle tipologie figurali palesemente estranee a Terzolo – sulla “concretezza” dell’operazione pittorica, sulla sua capacità di costruire immagini senza derivarle dalla imitazione di modelli esteriori, e specialmente scartando l’evocazione lirica (si pensi invece agli sviluppi del pensiero venturiano nella direzione dell’astrattismo lirico; parallelamente – restando a Torino – alle vicende della pittura di Paulucci, dal post-impressionismo dell’epoca dei Sei all’astratto/concreto degli anni fine Cinquanta inizio Sessanta, commentato da un venturiano in questo caso ortodosso come G.C. Argan).
È chiaro che la concretezza di Terzolo non nega la verità del vedere e che il vedere si applica rigorosamente al visibile – addirittura per lungo tempo a un certo visibile che è lo spazio aperto della campagna coltivata –, ma questo non toglie che solo alla processualità avviata dalla informazione visiva e dedicata alla lettura visiva egli riconosca piena responsabilità e verità: la pittura come via operativa per rendere visibile, direbbe Klee.
Ma tanto vale, questa volta sì, richiamare la cultura contadina; a patto si intenda che il contadino intrattiene con la natura un dialogo fondato sulla messa a punto di un preciso linguaggio, che dimostra la propria efficacia non sulla base di un generico sperimentalismo ma di una sistematica esperienza conoscitiva. Di qui la possibilità di comporre e scomporre, arrangiare, spostare, innestare, modificare, ma senza alterare la struttura naturale. L’artificio non in contraddizione con la natura, ma in rapporto di continuità e integrazione: la “coltura” come conoscenza fattiva, regolata e motivata fatica che forma le cose, ne accerta l’esistenza, ne sancisce il valore.
Non a caso, tema costante della pittura di Terzolo non è la campagna che solo l’alieno borghese suppone vergine, anteriore allo scacco umano, ma la natura elaborata dall’uomo, seminata con una certa regolarità di casipole, cascine, alberi fruttiferi potati e curati perché la raccolta sia abbondante e accessibile, scandita dalle colture varie secondo il terreno, l’esposizione, la stagione. L’uomo vi è discreta presenza, ma le sue tracce sono ovunque: nei solchi che pettinano le colline, nelle orme del camminare proprio e degli animali compagni, delle ruote dei carri e delle macchine semoventi, nelle costruzioni stabili o provvisorie, negli arnesi abbandonati, nella dislocazione dei magazzini e dei mucchi di materie da usare o conservare, nella economica regolarità dei confini dei percorsi di circolazione e di accesso ai borghi alle cascine agli orti… Sono dunque le opere e i giorni dell’uomo, cadenzati tra lavoro e riposo, nutriti di volontà e memoria, protagonisti della rappresentazione; non la natura in sé che non esiste se non come astrazione per utopisti e fantasmi di sognatori. E Terzolo non è utopista nel descrivere un mondo così possibile da essere sostanzialmente identico ai luoghi e alle storie di terra che ben conosce tra Monferrato e collina torinese, tra Roeri e promontorio amalfitano; non sognatore come dimostra la perizia con cui definisce e assomma ogni particolare, usando gli strumenti che il mestiere della pittura gli mette a disposizione, senza permettersi un solo gesto che non sia intenzionato a esito positivo, giustificato dall’etica della fatica.
Tutto questo – ribadisco – in silenziosa inflessibile polemica con le scelte che compiono non solo i naturalisti di marca ottocentesca, ma anche artisti contemporanei che pure sviluppano una approfondita indagine su aspetti della natura, per esempio i differentemente aristocratici Felice Casorati ed Enrico Paulucci. Entrambi, per cominciare, cittadini fino al midollo, portati a intrattenere con la natura un rapporto che non è di dialogo ma di godimento estetico, perfino estetizzante: l’uno, in funzione di questo godimento, astraendo dalla campagna coltivata toscana o della collina torinese la bellezza delle geometrie, delle misure, dei proporzionati rapporti, delle sintesi tonali, delle sorprese cromatiche e perché no? delle atmosfere; l’altro riconoscendo nei luoghi semi-selvatici della sua Liguria o nell’inventivo schematismo del Monferrato o delle Langhe squisite corrispondenze, come se le visioni naturali esistessero solo come specchio di emozioni rigorosamente interiori.
Zola, che di parecchi pittori fu amicissimo sull’avvio di quella stagione che forse si è conclusa con la generazione cui abbiamo fatto riferimento, intuì e in un certo senso sintetizzò le due figure, quella del pittore cittadino che gode del plein-air e quella del pittore di radice terragna che alla terra chiede salvezza e chiarezza, nell’esemplare Claude de “L’Oeuvre”, insieme Monet e Cézanne. Claude-Monet vive l’illusione della campagna innocente, la festa del plein-air liberatorio (come la vivranno drammaticamente, a volte disperatamente alcuni pittori delle generazioni successive) insieme con l’illusione dell’amore e della purificazione; Claude-Cézanne fallisce la liberazione fisiologica e simbolica, ma, nei fatti non nella finzione romanzesca, riesce a sopravvivere recuperando il rapporto umile e profondo con le proprie origini, e costruendo l’opera pittorica sul modello di struttura “naturale” che collega necessariamente profondità e superficie, costanti e variabili di stagioni e colture, cioè “entrando” come nel costruirsi e consistere della natura così nell’opera che si costruisce e consiste, “mentre la maggior parte dei pittori stanno di fronte alle proprie opere come gaudenti e delibatori, profanandole addirittura durante il lavoro in qualità di spettatori e di committenti” (Rilke su Cézanne)8.
Il problema, nel caso, non è ovviamente quello di fare graduatorie, ma di individuare caratteri e differenze, in modo che non si applichino strumenti impropri di misurazione e valutazione. Su questo fondamento accertato, ci si potrà anche chiedere di che specie sia la particolare declinazione della “natura contadina” di Terzolo. E in questa direzione potremo raccogliere le osservazioni “antropologiche” (più che “sociologiche”) di Giovanni Arpino, le precisazioni “psicologiche” (anche di metodo) di Mario Lattes, e quelle “strutturali” di Francesco De Bartolomeis.
Arpino, che ha dedicato alcune belle pagine proprio agli artisti legati alla natura (da Bruegel a Peluzzi a Terzolo appunto) traccia un quadro dei “piemontesi di campagna”, tanto diversi da “quelli di città”: “La razza è chiusa eppur morbida, lieta eppur recalcitrante, astuta eppur bonaria, generosa ma con saggezza, fedele ma con logica” (dalla presentazione per la Galleria del Vantaggio, Roma 1965); e sottolinea una intelligenza delle cose e delle relazioni spazio-temporali nient’affatto disposta a cedere il passo alle maniere brillanti del “cittadino”, tanto meno quando siano dedicate al piacere estetico della visione e solletichino l’orgoglio della “pura” contemplazione.
Anche per questo, in fin dei conti, a Terzolo potevano sembrare meno estranee le scelte dei Futuristi (e con essi Spazzapan) i quali, sia pure con altri criteri ed intenti, il mondo pensavano di doverlo costruire o meglio ricostruire, che quella dei prosecutori del naturalismo – e chissà che anche i Sei come eredi programmatici, almeno secondo L.Venturi, dell’Impressionismo, non li mettesse nella stessa categoria, semmai con qualche residuo romantico – e quelle di “certi allegorizzatori in musica di sogni colorati o di ipotizzatori di un incontro di coordinate cartesiane allo zenit della coscienza” (la bruciante sintesi tra virgolette è di Italo Cremona, nella presentazione del ’52 per la Personale alla Bussola di Torino).
Le osservazioni di Mario Lattes, scrittore ma anche pittore, sempre del ’52, sono altrettanto utili: esse hanno il merito di illustrare tanto la psicologia dell’artista, dico il suo atteggiamento e la sua strategia verso le cose, quanto – me lo si passi – la psicologia e l’intelligenza delle cose, cioè il loro esporsi per così dire consapevole addirittura provocatorio alla intelligenza e all’emozione del riguardante/ritraente. «Il tessuto, la fibra, la superficie ideale su cui [gli elementi partitamente raccolti, ai quali si limita il suo commercio diretto con la natura] … si ordiscono e organizzano, sono il suo “paese dell’anima”, l’acuta nostalgia, il rammarico d’altra stagione, di un paradiso perduto».
È in quel “paese dell’anima” che si compie l’incontro paritetico dei due “desideri”: quello dell’artista alla ricerca di se stesso attraverso malinconie, timidezze, rimpianti di un patrimonio perduto, e quello di una realtà che ha bisogno di attraversare il sentimento della perdita per riaffermare una propria non generica o patetica identità.
Detto in altro modo: la vicenda del pittore che ha bisogno del filtro della memoria per ritrovare il mondo, e perfino di una memoria oggettiva, colta – di copiare Ambrogio Lorenzetti e di rifare Bruegel – per riconoscere il proprio mondo, si intreccia alla vicenda di una natura che non si dà immediatamente ma attraverso la distanza spazio/temporale, e che, affacciandosi in splendidi freschissimi “studi dal vero” (per l’analisi di questa produzione rimando al saggio di Antonio Fissore, attentissimo collezionista e conoscitore di questo impegno di Terzolo) ha bisogno di riassestarsi nel luogo separato, asciutto e “meditativo” dello studio, per assumere la sua forma definitiva e in un certo senso originaria.
È un fatto che il realismo di Terzolo presuppone l’assenza dell’oggetto amato: l’oggetto del desiderio è remoto, ma l’amore che desidera, desidera l’oggetto totale, fino al punto che la sua presenza sia assoluta. Pittore d’immaginazione, dunque Terzolo: “I suoi quadri nascono nello studio, o meglio nascono attraverso un lungo lavoro di memoria sulle cose vedute ed hanno la loro epifania nel chiuso, nel silenzio, e nella concentrazione dello studio” (Luigi Carluccio, 1974). È il trauma della perdita, irreversibile salvo attraverso l’immagine, che permette di raggiungere la certezza del “mito visivo”. Che è anche il segno del possesso, ma non condizionato dagli accidenti della sorte né tarato dall’avarizia, anzi generosamente aperto perché la indicazione del “questo qui” suppone sempre un interlocutore con il quale condividere il piacere del possesso finalmente realizzato.
Le osservazioni di Francesco De Bartolomeis sviluppano e sistematizzano le intuizioni di Carluccio. De Bartolomeis insiste “sulla lunga elaborazione che non si esaurisce in premeditazione”; sulla “essenzialità e il controllo degli elementi formali – tecnicamente tradizionali – [che sono] a loro volta sottomessi all’invenzione alla scoperta di rapporti e di significati nuovi”; sulla continua produzione di paradossi, in quanto “ogni elemento è una silenziosa irruzione di realtà”; l’universo che ne risulta è quindi in ogni sua parte sorprendente, poiché “tutte le cose che sono nel quadro hanno equivalente valore e nessuna di esse riesce a relegare le altre a un ruolo di sfondo” (tutto ciò, naturalmente, comporta che ogni cosa semplice o complessa sia definita senza nulla concedere alla approssimazione, alla allusione: tanto che perfino quello che chiamiamo spazio è “cosa” di cui è descritta la qualità e quantità del contenere).
Forzando, mica poi tanto, le indicazioni di De Bartolomeis, vien da pensare a un gioco molto serio che i Surrealisti chiamarono “cadavre esquisse”, che consiste nel mettere in campo una serie di segni tra loro irrelati, perché ogni elemento non è legato agli altri da un rapporto di causalità, semmai di casualità necessaria. Ma non trarrei la conclusione che Terzolo sia indifferente alla realtà come organismo: l’irruzione continua della sorpresa, legata alla equivalenza di tutte le cose coinvolte, dice sì una concezione della realtà come congerie di elementi non obbligati da uno spazio predeterminato e da una successione temporale; ma l’artista non si sottrae alla responsabilità di mettere a disposizione, oltre che la complessità di un mondo, la possibilità di attraversarlo con ordine, incontrando un numero alto ma finito di occasioni e di relazioni.
L’unità nella quale si risolve la varietà dei particolari riguarda uno spazio che non concede altrove, che ogni volta è il mondo intero, e un tempo circolare dove ogni fatto e atto è “pesante”, perché identico nella successione ciclica, incastrato in una definitiva liturgia che non concede errore, pena la caduta di realtà. Tale l’identità metafisica cui allude, per esempio, la scansione delle rime e dei ritmi cromatici e compositivi.
Proprio dentro questa unità si coagula la consistenza di ciascuna cosa e di ciascuna parte di ciascuna cosa; ma anche si definisce la coerenza di atmosfera, la giustezza di luce e d’aria che, circolando tra le cose, ne permette una percezione complessiva, come si trattasse di un articolato organismo, in un certo senso antropomorfo.
1 Dal 1928, Promotrici e Quadriennali torinesi, Società Amici dell’Arte, Circolo degli Artisti, Mostre provinciali d’Arte di Alessandria, Premio La Spezia, fino alla Biennale di Venezia nel ’34.
2 Il generoso Prampolini lo introdusse nell’ambiente artistico parigino, facendogli incontrare i pittori della consistente colonia italiana e alcuni maestri già mitici. Mi sembrano però poco convincenti e alquanto generiche le ipotesi, avanzate da Luigi Carluccio, di contatti del Terzolo con Gromaire e Dunoyer de Segonzac; semmai potrà aver suggestionato il nostro “la compattezza magica delle vedute di Utrillo”, la sua scelta di tagli “da cartolina” legati ad una visione antimonumentale dei luoghi urbani vissuti in chiave quasi paesana.
3 Con qualche eccezione che andrebbe approfondita, come il caso singolare di Cino Bozzetti che riscatta in strutture naturali di rigorosa e limpida solidità uno spiritualismo sincero ma che potrebbe cedere al fumoso.
4 I rapporti di Terzolo con Roma furono piuttosto intensi e proseguirono negli anni: rapporti con artisti, gallerie, ambiente del cinema.
5 Pino Mantovani, “Carlo Terzolo”, catalogo a cura di Laura e Federico Riccio,“Le Immagini”, Torino 1987. Mi capiterà ancora in seguito di utilizzare lo scritto citato, ripreso in un successivo testo, elaborato alla voce “Terzolo” per la Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris “Arte Moderna a Torino II”, a cura di Rosanna Maggio Serra, Allemandi ed., Torino 1993, ma non ritengo di doverne dare ulteriore specifica informazione.
6 La mostra fu anche l’occasione per raccogliere le fila di una storia che la guerra aveva sospeso (il pittore era comunque solito mescolare opere ultimissime ad altre remote), e assunse consapevolmente o inevitabilmente valore programmatico, proiettandosi sulla stagione aperta dal dopoguerra, stagione nuova per molti, specialmente giovani ma anche coetanei o più anziani, rigorosamente ancorata al passato per Terzolo. Ma non è da sottovalutare che l’evento artistico oggettivamente più azzardato dell’immediato dopoguerra, il Premio Torino, lo vede presente, equidistante da “maestri” e “innovatori”. Ma anche al Premio Saint-Vincent, come noto risposta “politica” di Carluccio al “politico” Premio Torino, Terzolo è presente, in ragione della sua “inattualità”.
7 I testi sono riportati integralmente nella Antologia critica.
8 R.M. Rilke, “Lettere su Cézanne”, Electa ed. 1984, introd. di G. Zampa.
IL SEGRETO DEL COMÒ
ANTONIO FISSORE
Palazzo Crova, Nizza Monferrato, 2001
L’amico collezionista che per la prima volta varcava la soglia dello studio di via Perrone a Torino, veniva certamente incuriosito da un mobile, un comò neoclassico a tre cassetti, che Terzolo aveva decorato a tinte sgargianti: verde pistacchio la struttura, bianche le scanalature delle colonne ai bordi.
Nella maestosa sobrietà dello studio, di grandi dimensioni, con pochi quadri alle pareti, e altrettanti pochi quadri addossati alle pareti, questo comò, così originalmente variopinto, rapppresentava una specie di cassaforte. Nei suoi cassetti Terzolo conservava molto gelosamente tutta una serie di tavolette di ridotte dimensioni, testimonianze di un percorso artistico intimamente personale e mostrate raramente solo ad “amici fidati”.
Così si esprimeva il maestro quando, con non poche perplessità, si accingeva ad aprire quei cassetti per mostrare il “prezioso tesoro”.
Ricordo tra le altre tavolette Primavera a Reaglie, 1920; Caserta, 1923; Venezia, 1926; Villa Boglione, 1935; Pocapaglia, 1936; Neve di Maggio, 1939; Le serre, 1940; Le tende militari, 1941; Il pesco, 1942; Portofino, 1951. La parete alla quale si appoggiava il famoso comò, separava due ampie finestre da cui filtrava sempre una luce molto intensa che impediva a tutti i visitatori la perfetta visione di un quadro a essa appeso: Rosero, 1931.
Ebbene, questo quadro difficilmente visibile, sempre gelosamente custodito per più di 40 anni appeso alla stessa parete, pareva posto a sentinella del mobile-cassaforte.
Perché conservare e difendere questa dozzina di piccole tavolette con tanta determinazione per quasi mezzo secolo? Terzolo conosceva bene il valore del suo piccolo tesoro.
Questi quadri, piccoli di dimensioni, ma estremamente significativi di un tragitto artistico-pittorico, hanno punteggiato per 30 anni l’intuizione e la sintesi della pittura di Terzolo; hanno tracciato un percorso artistico che il maestro ha poi seguito senza titubanze e ripensamenti, fino alla fine del suo impegno artistico.
In Rosero, 1931, una cascina “cubista” bianco-calce cattura l’attenzione dell’osservatore: nessuna finestra sembra interrompere la facciata, nessuna presenza umana sì da evitare qualunque collocazione temporale. Questa opera realizzata con pennellate sicure e ponderate, rappresenta un punto di riferimento importante nell’analisi di questa particolare impostazione pittorica che Terzolo ha sempre praticato fino alla fine degli anni Cinquanta, per essere ripresa solo nell’ultima estate (1975) trascorsa a Noli dove dipinse due nature morte con pesci e uno splendido interno di paese.
In questa tavola del ’31 si possono leggere sia l’attenzione di Terzolo al grande paesaggista Fontanesi, sia la sintesi personale elaborata in un periodo, gli anni Venti, dove Terzolo si confrontava sicuramente con pittori come Cavalieri e, soprattutto, Boccardo (entrambi discepoli del maestro reggiano).
Questa pennellata libera evidenzia, in alcuni tratti dell’opera, come Terzolo sapesse gestire sapientemente il colore del supporto elevandolo a componente primaria dell’opera stessa.
Le piante “scure” che impostano il primo piano, “non disperdono le foglie nel cielo” come ebbe a dire M. Bernardi a proposito dell’Aprile di Fontanesi, ma respirano la stessa aria di fine inverno. Sono dipinte con tocchi sapienti, e disposte in modo da trasportare l’osservatore verso la casa bianca. Poco cielo e un accenno di “orizzonte” in alto a sinistra, infondono a tutta la composizione una atmosfera metafisica di rara intensità spesso raggiunta in queste “piccole” opere.
Nella bella e capillare ricerca di Francesco Sottomano, viene ricordato che “all’inizio del 1942, messo a disposizione del Ministero dell’Aeronautica… è a Avigliana…, non tralasciando di realizzare dipinti raffiguranti quei luoghi.”.
Uno di questi dipinti, Il pesco, reca a tergo, per mano dell’artista, la dicitura “Avigliana 1942”. Opera di dimensioni ridotte (31×22), ma di grande intensità pittorica. Ancora una volta, il dipinto è realizzato “a cavalletto” con visione dall’alto verso il basso del giardino dove sono in piena fioritura due alberi di pesco.
La tecnica usata da Terzolo nel realizzare questa deliziosa tavoletta, ricorda, almeno nelle fioriture, la stessa praticata dal Reycend nelle sue opere datate intorno agli anni 1910-1915 (cfr. Armonie primaverili, 1915).
A una attenta lettura, il dipinto presenta una zona in apparenza meno appariscente – lo sfondo – ma pittoricamente di alto livello. Il cancello in legno semi-aperto, i due tetti che scenicamente chiudono la composizione, il piccolo albero appena accennato, il campo sullo sfondo, completano questa piccola tavoletta di vere perle pittoriche.
Tutta la composizione è realizzata con “tocchi di colore” immediati che definiscono strutture solide e definite, come il nocciòlo nella parte a destra e quell’accenno di fioritura bianca che si intravede dietro allo stesso nocciòlo.
Tutti questi particolari eclatanti distolgono l’attenzione dalla parte inferiore della tavoletta dove è ritratto il giardino in penombra; siepi di arbusti che si alternano a fasce di prato verde, il tutto realizzato con rapide pennellate alternate a frammenti di tavoletta sapientemente non coperti da alcun colore.
Nel saggio di R. Longhi sui Paesisti Piemontesi, pubblicato sulla sua rivista “Paragone” nel lontano 1952, il grande critico volle evidenziare «i due aspetti più vivi del paesismo piemontese: la “poesia del vero” salita a grande altezza col Fontanesi e la “prosa del vero” che dal Piacenza porta al Pittara».
Sempre che piaccia classificare in questo modo i vari personaggi che hanno reso famoso il raggruppamento dei “Paesisti Piemontesi” sorge spontaneamente una domanda: dove collocare Terzolo?
Si può asserire senza timore, che l’opera pittorica di Carlo Terzolo è sempre stata sorretta da una onestà intellettuale ferrea, da strumenti artistici di primissimo ordine e che sempre nelle sue opere il maestro è riuscito a trasmetterci la consapevolezza dei propri mezzi, delle proprie sensazioni: sia quando ritraeva semplici oggetti del quotidiano, sia quando il soggetto pittorico era un maestoso albero testimone di storie secolari.
L’atmosfera metafisica dei suoi paesaggi, pervasa da un silenzio onirico, cattura infallibilmente l’attenzione dell’osservatore che, trascinato piacevolmente nell’opera, ha la possibilità di analizzare e verificare supporti tecnico-artistici di rango elevato.
L’opera pittorica del maestro Carlo Terzolo è “poesia del vero”.
PER UNA VERA PITTURA DEL VERO
PINO MANTOVANI
Palazzo Crova, Nizza Monferrato, 2001